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Visualizzazione dei post da luglio, 2009

il Paese dei tombini dipinti

Il bello aiuta la qualità della vita. In Giappone nulla nasce senza un progetto di armonia e grazia, nemmeno un semplice tombino di città. Sono diventata un po' giapponese dentro, mi sa, negli ultimi anni, visto che tralascio volentieri i libri di filosofia a favore dell'estetica applicata di una ciotola di riso. Cucinare giapponese è un modo per riconnettermi con la mia parte semplice e calma, quella che nella vita quotidiana se ne sta accuratamente nascosta per la maggior parte del tempo e va scovata con pazienza ed impegno sotto le montagne di stress e frenesie varie. Mi sono accostata al Giappone attraverso i libri e ne ho conosciuto la cucina inizialmente nei soliti ristoranti di sushi. Una quindicina di anni fa devo dire che non erano tanto trendy come ora ma il menù restava sempre limitato grossomodo a quelle quattro preparazioni base che nell'immaginario occidentale fanno tanto jap: sushi/sashimi, tenpura, zuppa di miso e gelato al tè verde. Un po' come dire c

ingredienti icona

Prima di proseguire con ogni discorso vorrei fare il punto degli ingredienti che mi ritrovo ad utilizzare più spesso, perchè credo descrivano meglio di tante parole lo "stile" di cucina che mi sono ritrovata addosso. Ciò che mi ha più affascinato è stato lo scoprire che spesso ingredienti che a me arrivavano da contatti con culture diverse dalla nostra erano poi invece tradizionali nell'Italia di qualche secolo fa. Immagino che questo elenco verrà aggiornato ogni volta che mi ritroverò tra le mani qualcosa di ora dimenticato per motivi di stagione, collocazione, umore o rimbambimento, oppure quando incontrerò qualcosa di nuovo e resterò folgorata dalla sua irrinunciabilità... Per il momento, in ordine sparso: Lo zenzero , ad esempio, che ora fa tanto "oriente", era sulle tavole rinascimentali, dapprima quelle nobili ma poi anche su quelle più semplici, un ingrediente diffuso com l'aglio o la cipolla, spesso usato anche in preparazioni dolci. Tra l'al

spaghetti alla cinese?!

Per sopravvivere alla cucina della mamma svizzera mia sorella ed io abbiamo cominciato presto a dedicarci alla materia ed entrambe abbiamo finito per appassionarcici (!). Ci siamo abbonate a riviste di cucina, abbiamo acquistato qualche libro ed intervistato le mamme degli amici e poi abbiamo a poco a poco cominciato ad invadere il territorio domestico, cominciando d'estate, quando la mamma lavorava e noi, a casa da scuola, avevamo tempo di approfondire e sperimentare. Mia sorella è uscita presto di casa per sposare l'amore della sua vita, un sant'uomo ora come allora, che come unico difetto aveva quello di abitare a 600 chilometri di distanza. La cosa ha avuto effetti di vario genere in famiglia, alcuni abbastanza pittoreschi, non ha però interrotto il flusso comunicativo a livello culinario tra mia sorella e me. Tra le varie missive (ancora tutte cartacee, qui si parla di preistoria!) che la posta ogni tanto si degnava di consegnarci a vicenda, spessissimo erano contenu

le erbe dell'inventore della carbonara

Chi direbbe mai che la carbonara sia nata a ridosso della guerra a Riccione da un'ispirazione iugoslava?! Lo testimonia però la storia, specificamente nella persona di Renato Gualandi, chef bolognese classe 1921, che in seguito cucinerà in Italia ed all'estero per importanti personaggi della storia e della cultura internazionale, ma che era in zona il 20 e 21 settembre 1944, quando gli alleati anglo-americani liberarono Riccione. Lo chef venne chiamato ad allestire una grande cena di gala in onore di ministri e generali inglesi ed americani, con il compito di utilizzare gli ingredienti messi a disposizione dalle truppe alleate e di fondere la tradizione gastronomica italiana con quella anglosassone. Il menù che riuscì a creare prevedeva, tra l'altro, anche gli spaghetti "alla carbonara", oltre ad una torta alta un metro e mezzo che riproduceva le due torri di Bologna, come augurio di una prossima liberazione anche della sua città natale. Quasi tutti gli ingr

la Luna e gli agrumi

Quarant'anni che l'uomo è andato sulla Luna, tutti oggi ne parlano e la cosa mi lascia abbastanza indifferente. Da quella sera in cui i miei mi svegliarono per assistere in diretta all'evento sul nostro piccolo televisorino in bianco e nero, ho avuto il tempo per riflettere sulla bellezza potente degli sforzi immani che le grandi imprese richiedono, sull'evanescenza di alcuni traguardi, sul fascino concreto delle aspettative e su quello quieto del non raggiungere mai i propri sogni. Il grande passo per l'umanità a me bambina è rimasto impresso quella sera per la novità dell'ora insolita in cui potevo stare alzata, nelle giornate successive per i "missili" che mio padre faceva decollare dalla tavola di cucina incendiando con un fiammifero dei cilindri fatti con la carta velina degli agrumi... Ognuno vive sulla propria pelle le esperienze come meglio crede, ciò che ci rimane suppongo sia esattamente la parte che ce ne meritiamo. Io dello sbarco sulla L

si fa presto a dire picnic...

Questa domenica sono invitata a "portare qualcosa" ad un picnic nel Canavese. Tutte le altre preparazioni immagino saranno tipiche italiane, purtroppo... No, nel senso che apprezzo molto la cucina del luogo, ma il vero picnic nella mia testa è fondamentalmente una forma d'arte tutta inglese, fatto dunque, per principio base (come cita ogni buon romanzo inglese che si rispetti quando descrive una colazione all'aperto), di rituali cesti di vimini ordinatamente riempiti di formaggi con la frutta, carni fredde, pesci affumicati, patè con gallette, una bella torta, limonata fresca ed una bottiglia di vino buono, e completati con una serie di plaid spessi oppure dei tavolini pieghevoli sempre rivestiti con tovaglie in tessuto, ombrelli (non si sa mai che combina il cielo, anche nella bella stagione...) e da stoviglie adeguate allo stile dell'evento. Già, perchè i picnic in stile britannico sono veri e propri riti declinabili all'infinito. Ne esistono ad esempio

i cappelletti e il paradiso

Lo so: non è stagione di cappelletti in brodo... non è domenica.... e quelli nella foto non hanno nemmeno la forma dei cappelletti... Con tenerezza rendo omaggio ad una signora dell'Appennino Emiliano che ha vissuto novant'anni. La sua vita è stata talmente piena di episodi da romanzo che avevamo anche meditato di metterla per iscritto. Ora non potremo più, questo non è il libro che avrebbe voluto. Le sue vicende restano private e l'esempio che tutti avremmo potuto trarne di coraggio, tenacia e generosità rimane esclusivamente un bene di famiglia, ma mi sembra giusto condividere più apertamente almeno la saggezza delle sue mani curve, operose ed infarinate. Le sue ultime parole per me dicevano che l'amore è ciò che salva la vita e compensa di tutto il resto, perciò anche quando si rimane incompresi non si deve smettere di dare. Le sono grata per l'onore di quest'ultimo saluto e mi piace citare anche le prime parole che ho sentito da lei: "faccia la bra

empanada svizzero-galiziana: le ricette viaggiano...

Le ricette viaggiano per le loro strade ed imparano ad ogni passo qualcosa. Questa me l'ha raccontata quando ero ragazzina una mia zia svizzera, quella "evoluta" della famiglia, nel senso che dai viaggi riportava anche spezie e ricette, oltre che fidanzati e fotografie... (Ecco, sapere che anche mia mamma fosse svizzera e lavorasse a tempo pieno è premessa indispensabile per capire cosa mi ha spinto verso i dodici anni ad interessarmi di cucina: pura necessità di sopravvivenza!) Prima ancora che io fossi mai stata in Spagna e che capissi cosa sono lì i peperoni, le spezie, le storie di invasori e reconquiste, ho cominciato a preparare anch 'io questa torta salata, insolita per i canoni familiari, sorprendente negli accostamenti e nell'armonia finale del tutto (... chi aveva mai dato prima un senso ai peperoni verdi, in casa mia, per dire?!) Nella versione "originale", ovvero quella che mi sono appuntata sul quadernetto di cuochina adolescente e

cominciare a scorrere...

Il mio 2009 è cominciato in Giappone. I mesi precedenti e a seguire sono stati parecchio impegnativi, ma quella piccola oasi di realtà a parte ha dato un senso a tutto. Quello, in fondo, cercavo durante la visita al tempio il primo dell'anno: un senso, o almeno la capacità di accettare anche quello che un senso sembra non averlo. Rinunciare a capire per me è stato un traguardo. Ho ringraziato questa intuizione, ho perdonato il mio limite e ho ripreso contatto con la realtà quotidiana, ri-cercando e poi ri-trovando la serenità delle piccole cose. Cucinare per me fa parte proprio del senso minuto della vita. Intuire cosa si cela dietro la forma "spontanea" degli ingredienti, ipotizzarne combinazioni e trasformazioni, agire sulla materia "naturale" come un alchimista, come un artista, mi da la sensazione di incontrare concretamente ciò che mi circonda, mi mette in relazione diretta con la terra, le stagioni, le storie e le geografie, alimenta il mio

precisazione:

Per carattere tendo a tenermi in disparte e so che un comportamento simile in rete rema contro la normale volontà di visibilità di un blog che si rispetti: ho ricevuto spesso critiche per questo.
Mi hanno anche fatto notare che non sempre racconto le manifestazioni a cui sono invitata da aziende e che non polemizzo con chi ha utilizzato i miei testi o le mie foto senza citare il mio blog.
Ringrazio con passione chi mi rivolge queste critiche per affetto e chi mi sopporta lo stesso, nonostante non segua i loro consigli!